mercoledì 1 settembre 2010

l'opossum leggendario

"I wanna hear some revolution out there, brothers. I wanna hear a little revolution!
Brothers and sisters . . . the time has come for each and every one of you to decide, whether you are going to be the problem or whether you are going to be the solution!
You must choose brothers, you must choose...
It takes five seconds . . . five seconds of decision . . . five seconds to realise your purpose here on the planet . . . I give you a testimonial - the MC5!"

DETROIT, 1968.

"Kick Out The Jams" is loud, proud rock and roll madness from an era when we thought that if we were weird enough, resolute enough, stoned enough and together enough we could make the establishment curl up and die by sheer good vibrations.Listening to the MCS, I can't believe we lost."

Altrove decenni dopo.



La rivoluzione, ripulita degli elementi retorici, giovanilisti, accademici, si presenta come eclatante proposizione (tentativo di costruzione) di una alternativa.
Essa si fonda sul presupposto che l'organizzazione e le dinamiche dell'attuale società non sono necessariamente date. Non sono le migliori. Sono rimpiazzabili in tali e tanti modi da essere imponderabili a priori.
Mi è già capitato di scriverlo, ma ci tengo a ribadirlo a stretto giro: qui non si parla solo di relazioni economiche. Anzi, sarebbe corretto dire che si parla "anche" di relazioni economiche, in quanto il nucleo di base sta in un ripensamento delle relazioni interpersonali, che oggi sono ipocrite, morbose, conflittuali. Nella società odierna è normale che soltanto nell'isolamento si possa trovare ristoro. Isolamento individuale o di un piccolo gruppo rispetto al complesso degli individui aggregati. In questo ambito, comunque, uno spazio di manovra è concesso ad ognuno di noi. La questione diventa trovare un grimaldello ed usarlo.

domenica 22 agosto 2010

Risposta

Su richiesta calorosa di Gingko, pubblico la mia risposta. Non è una risposta nel senso di difesa attacco, parata-stoccata. Perchè non ho voluto giocare a fare il duello. Sono solo alcune osservazioni.

o------o-------o------o------o-------o-------o

Rileggendo a distanza di 10 giorni dalla prima lettura, confesso di rispecchiarmi in una discreta parte del quadretto rappresentato. Ammetto anche che mi abbia inizialmente infastidito, anche se non offeso o ferito. Del resto è sempre curioso e alienante insieme scoprire l'immagine di sé sviluppata dall’altro. Sia perché non rispecchia l'immagine che vogliamo dare di noi, sia perché non rispecchia l'immagine che abbiamo di noi. Soprattutto può irritare il modo con cui vengono riportate nostre opinioni, convinzioni e idiosincrasie. Poiché conosciamo anche il nostro "non-detto" e percepiamo come una manipolazione un resoconto che in realtà è una estrapolazione empirica in buona fede. In effetti, in alcuni punti ritengo che tu mi faccia un torto.
Parto anzitutto da una definizione della mia posizione rubata altrove: “io sono un borghese giacobino che crede alle virtù della cosa pubblica e pensa che l’impegno civico faccia parte dell’eleganza dell’esistere”. Ma sì, mi sento essenzialmente borghese. Credo in realtà che non dia grande contributo teorico la distinzione “borghese”/”operaio”, usata a sproposito e in modo arbitrario. Siamo tutti borghesi e siamo tutti operai.
Sono assolutamente convinto che le nostre visioni contrastanti trovino espressione e accelerazione nel concetto di rivoluzione.
È chiaro che io non concepisco la rivoluzione come un blocco unitario ben identificato, con una meta sicura. Non ho mai “studiato” (perché anche di questo si tratta) l’amore di Gesù di Nazareth o l’amore che vendica e scioglie l'oppresso dalle sue sofferenze. E non mi è certo chiaro come questo processo riuscirebbe a operare e liberare. È decisamente vero che “la sua estrema fiducia nella tecnica gli impedisce di attingere ad un'immagine credibile di felicità”. Non credo al paradiso in terra.
Ma è abbastanza sbagliato dire con questo tono che scorgo “nell'incremento tecnico della produzione capitalista e nel conseguente mutamento della relazione tra forze produttive e rapporti di produzione le prime e necessarie tappe che preludono all'emancipazione del proletariato.” Ti confesso sinceramente che non sono molto convinto di niente a questo proposito. Sono tuttavia convinto che la produzione sociale e l’assegnazione dei diritti di proprietà possano mutare anche radicalmente senza che muti radicalmente la condizione umana. Poiché sempre, questa, rimarrà soggetta ad una gestione economica delle risorse materiali (intendendo queste nel modo più versatile possibile) limitate ma a cui non è affatto circoscritta. Fino alla fine del mondo l’umanità dovrà sempre fare i conti con morte, disagio, emarginazione. Eppure questo non conta. La possibilità di raggiungere una qualche definitiva felicità come la dipingi tu non coincide con la mia visione della natura umana e della società: non nego che sia possibile, nego però che qualcuno possa di affermare convincentemente che sia realizzabile senz’altro in questo mondo (l’unico del resto). L’uomo e la società sono cose troppo complicate perché chiunque possa vantare una ricetta magica.

Sia ben chiaro, io non credo di avere una risposta. Sicuramente non ho LA risposta. Forse tu e la tradizione situazionista di cui sembri farti portavoce avete ragione ed avete LA risposta. Per quel poco che ho letto, ho apprezzato. Dal canto mio temo comunque che il guizzo di felicità nell’impiegato che acquista il televisore non sia la liberazione in nuce, soltanto una simpatica immagine dell’umanità, quasi ironica, persino offensiva. Per qualche fanatico invece è lo schiavo che si mette le catene.
Ti dico cosa ho in uggia: visioni liberali che vogliono la società cattiva e opprimente, e l’individuo buono che aspira a realizzare tutte le sue potenzialità, ovvero la cui natura viene martoriata. Il discorso a questo si riduce. Il che lo trovo manicheo e pieno zeppo di ambiguità.
Quello che abbozzi, Gingko, sembra qui una sorta di ritorno alla madre natura, intriso di influenze letterarie. La realtà è che quello che abbozzi qui non è un progetto sociale. Ma attiene soltanto alla tua di salvezza.
Io trovo che non vi sia alcuna ragione per rifiutare il progresso tecnologico, lo sviluppo economico. Penso che non si possa guardare alla storia cancellando quello che c’è e c’è stato, e che l’attuale sia sempre la base da cui si deve partire, nel bene e nel male. Per questo deve essere conosciuto, studiato, compreso. In questo, non si può trascendere da un discorso economico che specifici un po’ di più cosa voglia dire “destabilizzazione radicale”. Tantomeno si può trascendere da una trasformazione politica, antropologica, che deve essere una riappropriazione di sé e non un’imposizione ideologica (solo deleteria). In ciò la cultura, almeno nella fase di transizione, può e deve fare da guida. Una guida cui l’harmony non può contribuire.
L’umanità, questo è l’obiettivo, deve appropriarsi per quanto possibile delle forze economiche che ha scatenato e da cui è governata. Volgerle a suo profitto, invece che esserne succube. Si badi, le forze economiche di cui si parla devono sempre e solo essere un mezzo. Il fine deve essere l’uomo.
Mattia può sentirsi realizzato dalla costruzione di trampoli robotici, e tu non sei nessuno per impedirgli questo millantando le virtù naturali del corpo. Perché di questo si sta parlando.
“Nel momento in cui la società scopre che essa dipende dall’economia, l’economia di fatto dipende da essa. Questa potenza sotterranea che si è accresciuta fino ad apparire sovrana, ha in tal modo perduto la sua potenza. Là dove c’era l’es economico, deve venire l’io”.
L’allentamento delle maglie sociali, obiettivo di cui non hai affatto l’esclusiva, deve essere ragionato sulla base di una visione complessiva della società e dell’uomo.
Confesso ancora di sentirmi troppo ignorante per affrontare qualsiasi progetto riformista. Eppure penso che per tentativi ed errori qualcosa si potrebbe fare.


Alceverde.

sabato 24 luglio 2010

Gingko contra Alceverde

Il Cittadino

Nel "Contratto Sociale", Rousseau aveva tenuto ben distinto il bourgeois dal citoyen. Il soprannome che è stato attribuito ad Alceverde, il Cittadino, segnala una sostanziale sovrapposizione dei due concetti nella loro trasmissione, in particolare l'identificazione del secondo con il primo. Quando si parla di Alceverde si parla del profilo del borghese attuale. Rispondere alla domanda su chi sia Alceverde, significa inevitabilmente fornire una delle risposte possibili alla domanda su come la borghesia sopravvive ancor oggi. Borghese è oggi semplicemente la postura comoda in mezzo all'esistente, e la conseguente ideologia che rende attraente questa postura. Ci sono molte declinazioni di questo star comodi in mezzo all'attuale. Alceverde ne rappresenta una.


Il linguaggio idolatrico

La totalità concettuale tessuta finemente su quella materiale, si esprime nel linguaggio con una purezza cristallina. Il linguaggio di Alceverde, quello parlato, che proviene immediatamente dal suo corpo, e non quello scritto, che egli riesce pur sempre a mediare con una buona dose di riflessione, è quello dell'attuale sistema educativo, dell'intelighenzia dalla televisione in giù, delle pubblicazioni culturali piccolo borghesi, del culturalame libresco e filmico dell'industria dei giocattoli per colti- e non da ultimo, del linguaggio dell'informazione, sintesi magistrale di tutte queste tendenze. Alceverde utilizza, non appena può, acronimi, sigle, nuovi conii. Volentieri cita, sotto una fragilissima patina di ironia, un lessico farcito di importazioni esterofile, perlopiù destinate a breve vita. In particolare, nessuno contraddice più di lui al comandamento: "non ti farai immagine alcuna". Egli assapora infatti con voluttà, nomi come se fossero articoli di massa e di consumo, ciascuno con il suo sapore estetizzante, di un'arte da impiegato d'ufficio, nomi che che appartengono ad un linguaggio tecnico, il cui referente può esser noto solamente a chi è immerso nell'attualità. E' il gergo delle prime pagine delle testate giornalistiche e, suo malgrado, non solo, considerato che appartiene in forma appena più inelegante anche a riviste scandalistiche, pubblicità, e spettacoli comici. In questo linguaggio la riflessione è tagliata fuori, i concetti utilizzati nella loro durezza di cose, mediante l'omissione ed il taglio dell'articolazione logica che solo renderebbe un linguaggio tale. Espressioni come "legge-bavaglio" sono il lutto del linguaggio. Esse presuppongono con arroganza che il referente sia noto al destinatario in quanto appartenente alla triste comunità dell'informazione. E' innegabile che queste espressioni luccichino; sono immagini, idoli, feticci forgiati nella rapidità e nella scaltrezza piuttosto che nell'oro. Pronunciandole forniscono l'apparenza del possesso, della proprietà cosale di pseudo-concetti. Si sa che il infatti che il bourgeois non può vivere senza la proprietà, egli è la sua proprietà. Il suo linguaggio è quello dell'individuo di massa, sicuro di sé, presuntuoso e scaltro abbastanza da reclamare il diritto di utilizzare un linguaggio libero di ignorare la tradizione, rimanendone così del tutto succube, poichè nella miopia del suo linguaggio i suoi orizzonti si sono sensibilmente contratti.


Il feticismo della cultura

La verità più profonda della dottrina marxiana della distinzione tra struttura e sovrastruttura è quella di aver segnalato che la seconda è un indebito e violento isolamento di un elemento dalla totalità in cui è inserito, e nella quale assume il suo unico significato reale. Mai come oggi la cultura conserva l'apparenza totalitaria della sua autonomia rispetto al movimento dialettico globale. La falsa compattezza della storia della cultura, malgrado Marx, Benjamin, Debord, si è ancor più consolidata. La cultura crede di librarsi superba al di sopra dei prodotti culturali di massa, mentre è solo un momento della dialettica della povertà culturale. Si è venuta così a formare una falsa opposizione tra prodotti culturali di massa e prodotti culturali d'autore. Non è difficile vedere che i secondi sono efficacissime sentinelle dei primi. Di questa apparenza è completamente intriso Alceverde. Non credo sia molto distante dalla sua convinzione che una lettura su larga scala di Stendhal, che magari potrebbe sostituire gli Harmony o "Visto" dal parrucchiere, avrebbe una buona parte nell'emancipazione dell'umanità. Nulla di più solidale con il mantenimento dello status quo. L'impiegato può leggere, se gli restano ancora un po' di energie tra il suo stupido lavoro, la moglie, le vacanze, e gli acquisti per la casa, l'eredità della "grande tradizione culturale" solo perchè l'operaio resta totalmente estraneo a questa cultura. Questo Alceverde non lo vede. La cultura è divenuta per lui un feticcio tale che chiunque non si piega davanti ad essa, e continua magari a vivere di calcio e riviste di motori, è giudicato non esplicitamente indegno della sua compagnia, ma in ogni caso differente per schiatta e per stoffa, o tutt'al più oggetto per una serata del suo divertimento (e spesso del sottoscritto). Dopodichè quella persona resta qualcuno che non ha niente da spartire con lui. Ma la cultura non è un trastullo per salottieri, così come, consapevole o meno, la intende Alceverde. La cultura è il campo di una lotta. Anche la grande cultura, potè nascere e continuerà a farlo solo sulle spalle del servaggio di milioni di uomini. "Non vi è documento di cultura senza esservi insieme documento di barbarie" (Benjamin, Tesi sul Concetto di Storia, tesi VII). Alla grande cultura appartiene sempre una grande boria, promemoria dell'ingiustizia su cui si edifica. Chi si è abbeverato alle fonti del materialismo scorge ad ogni piè sospinto, in ogni eccellente prodotto culturale, le tracce dell'oppressione. Una società in cui la cultura raggiunge vertici di eccellenza è una società in cui l'ingiustizia regna indisturbata; l'eccellenza culturale testimonia della non conciliazione di alcune sua parti con le altre. Un libro di Marx risulterà sempre più deleterio per il proletariato rispetto ad una trasmissione di Barbara Durso, fin quando peserà sulle sue spalle e gli risulterà incomprensibile. Questa atroce verità non è nota ad Alceverde, per difetto di materialismo. Il museo, luogo archetipo della separazione della cultura dalle masse, tesoro reale in cui viene raccolto tutta la bellezza che ci è stata espropriata, non rappresenta per lui alcun problema. Egli non comprende appieno il saggio di Benjamin sull' opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, poichè in esso scorge le aspettative, per lui insostenibili, del crollo della grande cultura borghese, dalla cui prospettiva egli parla. Egli non è abbastanza dialettico. Non vede che la bellezza eterna promessa nel duomo di Firenze, non è che una crudele e cinica parodia della bellezza della felicità non più promessa, ma attingibile nella società conciliata, e senza artisti.


La cura del corpo

Alceverde non è certo uno di quelli che seguono in perfetta sincronia il ritmo frenetico delle innovazione tecnologiche. Tuttavia il suo corpo è l'incrocio perfetto di tutte le tecnologie messe in opera dalla borghesia per aumentare a dismisura la distanza tra se e gli altri, tra se e la natura. Oltre che dell'incantesimo dell'arte e della cultura che lo mantengono nel torpore, egli è vittima di uno ben più invasivo, le cui formule magiche consistono in tutta una serie di mitologie scientifiche, di miti edonisti e allo stesso tempo di paure igienistiche. L'alce verde proprio non capisce perchè si dovrebbe soffrire il caldo quando la fiaccola vittoriosa della tecnica avanza con i suoi climatizzatori. Già non vede più al di fuori; il suo corpo è totalmente investito (come quello dei più), di una seconda natura che gli appare come la prima ed immutabile. Tratta anche il dolore così come il borghese tratta tutto ciò in cui si imbatte: utilitaristicamente e finalisticamente. A che soffrire il caldo? A che pro rinunciare a qualcosa che ci procura piacere? Quale sarebbe il fine, oggi che la tecnica ci sorregge tra le sue braccia di madre morta, di una sofferenza fisica? Il corpo è invece il serbatoio di tutto il nostro essere. Ciò che il piccolo borghese chiama sofferenza inutile o gratuita sono i colpi dello scalpello che ci forgiano. Non mi riferisco qui all'ideologia della tempra d'acciaio tipicamente fascista. Piuttosto, Alceverde dovrebbe imparare a scorgere nelle tecnologie che ci impediscono di ricordarci del nostro corpo, altrettanti dispositivi di livellamento spirituale. Lo spirito non è influenzato dal corpo; lo spirito è il corpo, senza mediazioni. La sua mania per l'integrità dei cibi, la sua attenzione (pur con modeste capacità) alla distinzione e alla selezione di sapori, la sua ossessiva profilassi, pressochè esclusivamente psicologica, visto che in fin dei conti raramente pratica, fortunatamente, un igienismo estremo, fanno parte della stessa incapacità di porsi di fronte alla questione del corpo con uno sguardo che sia diverso da quello utilitarista. Questo sguardo si estende fin nelle propagini paludose del suo concetto di morte, che la morte di alceverde è sempre una morte di lazzaretto o d'ospedale. Ma questo credo sia il lato contro il quale egli è più impotente. Per chi, come alla fine delle ferie pagate concesse dall'alto, cresce in una serie di attenzioni e di piaceri che cercano in tutti i modi di precluderci un rapporto autentico e laborioso con il proprio corpo, la loro cessazione diventa insostenibile, così come ciò che è stimolante nel suo non assecondare i capricci di bambini viziati viene chiamato ed avvertito come doloroso.


"Che cosa mi è lecito sperare?" (1)


Coloro che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che vi è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto radicale di tutte le costrizioni, si riempiono la bocca di un cadavere.
Comitato Enragés - Internationale situationniste
Parigi, maggio 1968

Si sarebbe tentati di rispondere a questa domanda con: "nell'amore", nel senso pregnante in cui lo usava Gesù di Nazareth, sulla scia della quale Marx ed ogni filosofo della liberazione hanno concepito la rivoluzione, e di cui i situazionisti hanno raccolto l'appello nel testo "La comune non è morta (chi ha paura della comune?)". Senonchè Alceverde non sembra avere alcuna nozione riguardo questo amore che vendica e scioglie l'oppresso dalle sue sofferenze. Quando parla di amore, si riferisce all'amore tra due, di cui il massimo ideale che riesce a raggiungere è quello di godere dell'altro in un estetizzante intrattenimento culturale, che il piccolo borghese riesce a pensare come scambio di anime e comunicatività. Talvolta Alceverde parla di liberazione, rivoluzione, o di qualunque concetto si voglia affibiare ad istanze emancipatrici. Ma la sua estrema fiducia nella tecnica gli impedisce di attingere ad un'immagine credibile di felicità. Egli ha ereditato il lato peggiore del materialismo storico marxiano: quella ingenua dialettica che scorge nell'incremento tecnico della produzione capitalista e nel conseguente mutamento della relazione tra forze produttive e rapporti di produzione le prime e necessarie tappe che preludono all'emancipazione del proletariato. E' questo in fondo il dogma principale della sinistra attuale, in ciò pienamente compatibile con l'attuale sistema di produzione. Secondo questo dogma l'emancipazione dalla natura e dalla fatica sarebbe già di per se emancipazione tout court. Ma non solo senza una destabilizzazione radicale i mezzi di produzione restano nelle mani della classe che opprime; la velocità e la comodità della produzione e del consumo favorito dalla tecnica, hanno in se stessi un potenziale distruttivo nei confronti della natura e dell'uomo. L'uomo necessita di una prassi trasformatrice attiva. L'automazione espropria l'uomo della sua attività, lo rende semplice funzione del processo globale, e logora alterandoli i ritmi quieti della natura. La socializzazione integrale del lavoro auspicata da Marx attraverso il modello spaziale della grande industria si è rivelata espropriazione integrale dell'attività dell'uomo, che oggi potrebbe sopravvivere potenzialmente anche manipolando solamente il suo telefonino, mentre le sue facoltà legate al movimento della mano che incontra il materiale vanno inesorabilmente atrofizzandosi.
Ma la felicità non è qualcosa di originale, di nuovo, di completamente rivoluzionario, di culturale. Il vento della salvezza già da sempre spira tra gli spazi che le maglie coercitive del tessuto sociale stringe intorno alla gola. Laddove una quindicenne si lascia scappare un raro riso di autoironia tra i poster degli idoli vampiri, dove la casalinga sprofonda il respiro in uno dei brani più grossolani di Renato Zero, nel lampo rapidissimo di felicità che scontorna l'occhio dell'impiegato d'ufficio all'acquisto del suo nuovo televisore, lì vi è in nuce la liberazione. Se si continua ad attenderla in un presunto movimento accrescitivo del tesoro culturale e degli "orizzonti mentali", si collabora senza saperlo con il nemico, che perpetua nelle gerarchie estetico-valoriali e del "gusto" la divisione di classe.

venerdì 4 giugno 2010

La trappola per topi

Gli schiavi nelle loro catene perdono ogni cosa, perfino il desiderio di liberarsi di esse.
Rousseau, Il Contratto Sociale

Da un certo modo di concepire il potere scaturisce un modo del tutto illusorio di combatterlo. E così, chi crede di combatterlo non fa altro che rafforzarlo. Mostreremo anzi che quella intuizione del potere è prodotta dalle strategie che derivano dalla struttura del potere reale ed effettivo.
La confusione nasce dall’innegabile carattere esclusivo del potere. Non si può negare infatti che tra le prestazioni principali del potere ci sia l’esclusione. Non si può comprendere fino in fondo l’essenza di questa esclusione se prima non si è compresa l’essenza del sacrificio e la struttura sacrificale. Di questo fondamento antropologico del potere qui non ci occuperemo, ma solamente della sua morfologia, che in ogni caso deriva da quel fondamento.
A partire dalla qualità esclusiva del potere, si inferisce troppo frettolosamente che il potere abbia carattere repressivo. Sia l’esclusione che la repressione portano su di se un segno negativo, e si cade quindi molto facilmente nel pericolo di confonderle. Tratteggeremo schematicamente la morfologia della concezione repressiva del potere.
Il potere repressivo viene dall’alto. Proveniendo da un’altura non può che schiacciare, spingere verso il basso. Si presuppone quindi che ci sia qualcosa, di potenzialmente pericoloso per il potere, che debba essere de-presso. Il potere deve sfrondare, diminuire, schiacciare. Sarebbe troppo semplice confutare questa concezione ex-negativo, mostrandone la fin troppo chiara derivazione psicologista. Prenderemo quindi un’altra via.
Il cuneo cui applicare il grimaldello per rovesciare questa concezione, ci offerto da essa stessa. La concezione repressiva del potere, come abbiamo appena mostrato, presuppone che ci sia qualcosa da reprimere. In verità questo qualcosa non è ciò a cui il potere si applica per soffocarlo, ma l’esito, il fine e l’unico obiettivo del potere stesso. E’ il potere che deve far emergere tutte quelle istanze che solitamente si crede che esso abbia il compito di soffocare. E, conseguentemente, è il potere che si dissimula con il volto del repressore, in modo tale da far emergere quelle istanze in modo più chiaro. Vediamo come e perché.
Il potere funziona come una trappola per topi. Lungi da reprimere la fame del topo, la trappola la stimola con l’odore del formaggio. Il topo è così stimolato ad esprimere la sua fame, a dirigersi verso il formaggio, e ad adottare tutte le misure più efficaci per raggiungerlo. E quando finalmente lo raggiunge, ecco che, zac!, la trappola l’ha catturato. La prestazione fondamentale del potere è la cattura e non la repressione. In un certo senso la trappola è già da sempre attiva, ed il topo già sempre catturato; sin da quando il piacevole odore del formaggio comincia a stimolare i suoi organi olfattivi.
Al potere è quindi indispensabile che chi gli è assoggettato si esprima . Solo se il soggetto si esprime egli può essere catturato. Altrimenti il potere non ha ciò su cui poter far presa. Tutti ciò che si chiama istinto, è l’odore del formaggio che emana dalla trappola. Fuor di metafora, gli istinti sono i percorsi tracciati dal potere perché il soggetto possa, percorrendoli, incorrere nella sua cattura. I desideri, le volizioni, i sogni e i sonni collettivi (ad esempio il dogma più diffuso della religione della nostra epoca: la glorificazione del divertimento), le più segrete brame, sono effetti che il potere esercita sul nostro corpo, mettono in forma le nostre forze in una condotta identificabile, gestibile, governabile, pre-calcolabile. Fondamentale è che il potere ci riconosca, che sappia chi siamo, che noi diciamo “la verità su noi stessi” . Esso deve tagliare delle gabbie su misura, non se ne fa niente di un individuo senza forme, e che in ultima istanza non sia neanche un individuo. Ha bisogno di un’individuazione preliminare.
Ora appare più evidente il modo in cui la concezione del potere come repressivo sia prodotta dal potere effettivo stesso (che non è repressivo). Il potere penetra così a fondo in ogni nostra fibra, che lo stesso sguardo individuante che esso ha su di noi, noi stessi l’abbiamo su noi stessi. Noi ci pensiamo alla maniera in cui ci pensa il potere, per meglio dire, noi siamo pensati dal potere. Abbiamo la più ferma certezza, e ci infastidirebbe chiunque insinuasse su ciò il minimo dubbio, che gli individui dotati di istinti, di volontà autonoma e di desideri siano già dati, quasi per natura. Che cosa sono io, se non ciò a cui aspiro? Se non ciò che scarto e ciò che scelgo? Se non le mie più recondite pulsioni? Se si muove dall’assunto che esistano desideri per natura, e il potere reale sorveglia affinché questa convinzione si perpetui, non si può che avere un immagine repressiva del potere: come ciò che soffoca l’individuo.
Ci troviamo in una situazione che per il senso comune è paradossale. Ciò che ci permette di esprimerci è in realtà oppressivo. Ma se ciò appare paradossale è soltanto perché la nostra immagine del potere è tenacemente repressiva. Una delle obiezioni che potrebbero qui essere sollevate sarebbe: e allora, come sfuggire alla presa del potere? Inibendo la propria volontà? Ma qui si vede facilmente come questa obiezione sia tutta interna al paradigma repressivo del potere, e scorge nell’elusione della cattura una mera inibizione.
Questa obiezione si leva da chi identifica la liberazione con l’espressione dei propri desideri, come se essi non fossero l’esca del potere. Il soggetto libero è una prodotto del potere liberale. E’ ora che ci se ne disfi.
Checché se ne dica, l’ascesi autentica è la vera bestia nera del potere; su di essa la sua presa scivola continuamente. E’ inevitabile quindi che nelle sue prime manifestazioni la resistenza al potere come cattura si presenti come ascesi. Ascesi come dominio delle forze, freddezza nei confronti di se stesso, sprezzo per i piaceri forniti dalla individuazione, che sono sostanzialmente la soddisfazione per la propria condizione professionale, il consumo di prodotti culturali, il prestigio. La lotta non può che avere il senso negativo di abbattimento dei sistemi di individuazione. Si deve avere il coraggio di non essere se stessi. Il “nostro” se stessi, la “nostra” individualità, è in realtà la cosa che meno ci appartiene, e che più ci rende schiavi. Più ci dibattiamo alzando la voce, più ci dimeniamo con atti di ribellismo irriflesso, più rivendichiamo i nostri “diritti” e la nostra volontà, più restiamo impigliati nelle nostre catene. Abbiamo imparato ad amarle, le nostre catene; al punto di credere che saranno loro a renderci liberi.
Come non si può pensare più la rivoluzione come un azione finalizzata ad uno scopo a venire, così non la si può pensare come espressione, manifestazione, rivendicazione. La rivoluzione dovrà piuttosto avere l’aspetto del suicidio , dell’autodistruzione, del dissolvimento di sé, del naufragio. In quale altro modo rendere inoperante la trappola? Si potrebbe pensare di disattivare direttamente la trappola. Ma proprio il carattere fluido e sfuggente del potere impedisce una localizzazione univoca del bersaglio da colpire. Molto più efficace sembrerebbe il rendersi scivolosi, sfuggire alla presa, assorbire l’urto delle vessazioni neutralizzandone l’effetto (e mostrare spavaldamente che il colpo è andato a vuoto), mostrarsi immuni da quella logica e da quella economia di forze . E, non da ultimo, non dimenticare che i topi ci rimettono la pelle.

Gingko

Marxismo e fenomenologia in amore

Che cos’è la proprietà? Un rapporto sociale.
Che cos’è il valore? Un rapporto sociale.
Che cos’è la sorveglianza? Un rapporto sociale.
Che cos’è il potere? Un rapporto sociale.
Che cos’è Dio? Un rapporto sociale.
Che cos’è la cultura? Un rapporto sociale.
Che cos’è l’arte? Un rapporto sociale.
Che cosa sono vittoria e prestigio? Rapporti sociali.
Che cosa sono sesso e amore? Rapporti sociali…

…un momento, un momento, piano, fermi. Sono costretto ad interrompere questa dolcissima litania marxista. Come? Il sesso e l’amore costituito su di esso e perpetuantesi attraverso di esso sarebbero rapporti sociali? Si tocchino Dio e la proprietà ma, per carità, non si tocchi l’Amore. L’amore è una tonalità dell’animo, un sentimento tutto interiore; per esso il principio marxiano secondo cui non esiste alcun interno, ma tutto è esterno e configurazione squisitamente esterna delle forze, deve fare un eccezione, deve farsi da parte con discrezione. Marx se ne stia da parte. Non importuni gli amanti.
E’ un esercizio sadico lo ammetto il nostro, quello di dissipare i fumi della fantasmagoria della merce sessuale-amorosa rivelandone lo scheletro politico che la sostanzia. Tuttavia un esercizio molto faticoso, perché costretto a scontrarsi contro un muro di durezza adamantina, quell’ostacolo apparentemente insormontabile che è il “fatto” dei sentimenti. Il problema dunque diviene: come portare alla luce la struttura sociale dei rapporti amorosi, senza cadere nella tentazione di ridurre l’esperienza vissuta su di se ad effetti sovrastrutturali prodotti causalmente da quella struttura?
Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una doppia verità, le due espressioni infinite della stessa sostanza infinita, ma che tra loro non si toccano. Ci si potrebbe riferire ad esse come verità oggettiva (base materiale del rapporto) e verità soggettiva dell’amore, se non che quel che qui si vuole mettere in discussione è da un lato l’esistenza di una verità interna indipendente dalle condizioni storico-materiali, dall’altra lo statuto attribuito normalmente alla “verità dell’interno”. Dalla critica potrà così emergere una diversa forma concettuale sotto cui ricondurre ciò che abbiamo chiamato in vari modi: vissuto interiore, qualità soggettiva del rapporto, aspetto sentimentale del rapporto sociale.
Dobbiamo in primo luogo distinguere il metodo dall’oggetto. L’oggetto è l’amore; la metodologia marxiana consiste nel rovesciare i contenuti mitici di un rapporto sociale alienato in immagini ideali e sparpagliarli su di una mappa bellica, su cui si affrontano differenti strategie e resistenze. Che il metodo sia scientifico non significa che debba esser tale necessariamente anche l’oggetto. E viceversa: se l’amore è un oggetto “irrazionale”, ciò non implica affatto che il metodo più appropriato per coglierne l’essenza sia quello irrazionale, magari quello poetico. Lo svisceramento dell’amore mediante l’esposizione dei suoi contenuti materiali non è una materializzazione dell’amore. L’analisi verrà svolta, al contrario per raffinare le distinzioni tra i due ambiti, la ricollocazione degli elementi all’uno piuttosto che all’altro, ed in ultima istanza per un afferramento più profondo dei rispettivi concetti.
L’amore non è qualcosa che si libri nell’aria a congiungere due soggetti isolati. Non è neanche, quantomeno per l’oggetto della nostra riflessione, un’attrazione di tipo magnetico dei sessi per sfregamento più o meno metaforico. L’amore è nella storia, nei popoli, sotto istituzioni e saperi determinati. Inoltre l’amore, come lo sfruttamento, è sempre amore di qualcuno per qualcun altro. Che io ami un singolo individuo piuttosto che un gruppo di individui, che ami carnalmente o meno e soprattutto che io accetti di chiamare amore l’uno piuttosto che l’altro- queste non sono incarnazioni storiche di differenti idee di Amore. Queste differenze vogliono piuttosto significare che l’amore è di volta in volta l’uno piuttosto che l’altro, perché consegnato all’attimo storico che decide ogni volta cosa l’amore sia. Che l’amore sia un oggetto storico significa anche che è un rapporto sociale. “Ad ogni modo di produzione corrisponde un determinato rapporto di produzione” . Ad ogni modo fenomenico dell’amore corrisponde un determinato rapporto “privato”. Dove l’accento cade su “determinato” ovvero finito, di un tipo e non di un altro, uno tra gli infiniti modi possibili o già realizzati, sincronicamente o diacronicamente. Non è l’esito di una mia libera scelta che io oggi cerchi l’amore o il sesso il sabato sera, piuttosto che frequentando un salotto aristocratico, ma il necessario schema di condotta da assumere per il fatto di appartenere ad un’epoca successiva all’ottocento, ad esempio, e ancora di appartenere ad una determinata classe economica, di avere accesso ad alcuni prodotti culturali piuttosto che ad altri, di vivere in campagna piuttosto che in città. E lo stesso vale a livello microscopico per ogni singolo elemento del fenomeno sesso-amore così come un individuo lo “vuole” vivere, ovvero le alternative monogamia-poligamia, amore carnale-amore romantico, matrimonio familiare-matrimonio sentimentale e così via. Ogni singolo respiro degli amanti è un respiro di ghiaccio, congelato in strutture previste e già da sempre in opera, ancor prima di scoprirsi innamorati. Andare a casa di lei (i genitori sono “moderni” ) o nascondersi nei boschi, sesso di gruppo o sesso duale o sesso telematico, ogni rapporto sociale è canalizzato in dispositivi e progetti che hanno un valore interamente politico.
Non solo l’agire d’amore è un agire che segue pre-visioni e strutture le quali agiscono già da sempre prima di ogni sentimento soggettivo, ma queste strutture penetrano e costituiscono i soggetti, organizzandone le forze e calibrando i bilanciamenti nei rapporti con gli altri. Se in alcuni popoli il rapporto con l’altro sesso è una sfacciata conservazione del dominio dell’uno sull’altro, nell’occidente attuale è una sorta di meccanismo eugenetico automatico, in cui la libertà sessuale funge da filtro che garantisce il discrimine tra coloro che sono conformi all’attuale forma socializzata del sesso e quelli che invece non lo sono, ripartisce interessi e forma stili di vita in antagonismo tra di loro (spesso apparente: il macho e il secchione sono due facce della stessa medaglia), distribuisce nelle ore diurne e notturne i corpi in differenti spazi della città, sviluppa certi settori dell’economia tagliando i prodotti sugli interessi da esso generati, conserva la prospettiva biologizzante dello sguardo sull’altro,decide i discorsi e li ripartisce, mediante norme sociali implicite che consentono di parlare con alcuni piuttosto che con altri, ed agli uni o agli altri vincolare le proprie mire sessuali .
Tuttavia permane un residuo sentimentale. Per quanto intimamente edificati su strutture indipendenti dal soggetto, non è possibile ignorare gli aspetti emotivi dei rapporti sociali. Che cosa può rimanere di essi? Be’ quasi tutto, integralmente: ansie, speranze, delusioni, suicidi, sorrisi, addii, arrivederci, sguardi, e magari anche attimi eterni. La configurazione storica delle emozioni non intende affatto eliminare i sentimenti; ciò che ad essa interessa e di cui essa vive, è la ripartizione topografica di queste emozioni. Sto forse dicendo che c’è un sostrato umano che permane sotto ogni mutamento storico? Assolutamente no. Ogni sostrato umano è un rapporto sociale, è storico, e per questa ragione non è un sostrato. Quelle gioie, attese, quelle speranze e quegli abbattimenti non sono proprietà naturali dell’uomo che la storia si limiterebbe ad organizzare. Essa ne decide l’intima qualità, il carattere peculiare, li crea. Con una certa cautela potremmo anche affermare che quei sentimenti si susseguono con una certa meccanicità, che sono scanditi ed interagiscono con schemi previsti dalla particolare congiuntura storica. Ciò però non è sufficiente ad eliminare quella sensazione d’eccedenza, mai sufficientemente sospettata di idealismo o spiritualismo, che dovrebbe appartenere al lato sentimentale e passionale dell’uomo. Ci troviamo di fronte ad un dilemma: o i nostri vissuti emotivi non sono che meri giochi di sensazioni prodotte dal nostro cervello che come un qualsiasi altro organo, come un muscolo, per così dire si contrae e si rilassa a seconda del gioco di forze in cui è preso, oppure vale la pena approfondire la dimensione intensiva e la verticalità di ciò che chiamiamo l’emotivo. E se questa alternativa non fosse in realtà un’alternativa, ma una stessa ed unica via?
Si può infatti sostare in un sentimento, farne una sezione trasversale, attraversarlo, afferrarlo in modo diverso. Heidegger afferma che l’autentico non è qualcosa che si trovi accanto o al di sopra della vita inautentica, ma è un differente afferramento di essa . L’inautentico è ciò che nasconde e tiene celato l’autentico, che manifestandosi di contraffà, e proprio per questo è tale. E’ grossomodo questo che qui si intende per intensificazione e sprofondamento verticale. Bisogna in primo luogo abbandonare le espressioni “vissuti soggettivi”, “emozioni”, “sentimenti”, “esperienza vissuta”, che rimandano ad una mistificazione del meccanico che accade nei rapporti sociali. Non siamo noi i soggetti di queste emozioni, queste accadono e si servono del nostro corpo per accadere, per scaricarsi. Probabilmente non accadono affatto, ma quello che noi vediamo come un accadere è una semplice pellicola che copre un tempo che scorre sotterraneo ed è serbato dalla contraffazione. Non che lo sprofondare ci renda soggetti di un qualche accadere. Tuttavia esso ci rimette ad un’istanza tanto inaggirabile e perentoria quanto nascosta, visibile solo nel suo essersi ritratta e nel suo abbandonare la storia. E’ la landa della malinconia e della desolazione, perché di fronte agli occhi non abbiamo altro che rapporti sociali, e” noi stessi”, così come solitamente concepiamo “noi stessi”, non siamo altro che rapporti sociale. E’ una malinconia molto bizzarra, d’altra parte, perché non conosciamo affatto ciò che abbiamo perso, essendo noi stessi, la nostra vita e la nostra morte, nient’altro che un rapporto sociale. Chi potesse scorgere dall’esterno questa malinconia crederebbe di vedere la malinconia di un folle, meditabondo e crucciato nel bel mezzo di un convivio lieto e gioioso. Questo folle sa che ha perso qualcosa, ma non ricorda più che cosa. Non ha quindi neanche la consolazione romantica di poter guardare a se stesso come l’amante che a perso l’amata, o come un Nietzsche che ha perso Dio. E’ consegnato allo scorrere piatto e viscoso della storia. Platone conosceva bene la nostra paradossale condizione per cui dobbiamo ricordare un “regno delle idee” che non abbiamo mai potuto contemplare, eppure un’ “indice segreto” ci ingiunge di ricordare. O meglio di e-ricordare, ma forse il concetto migliore ce l’ha fornito Platone stesso con il termine anamnesi, la non-dimenticanza, concetto felicissimo per via del suo alludere alla memoria solo negativamente, e che può rendere manifesto meglio di qualsiasi altro che l’annuncio della salvezza non si trova al di là della storia, tantomeno si compie in essa, ma è nell’ombra nera che essa lascia ritraendosi. Dove la storia si abbandona.

Gingko

domenica 2 maggio 2010

Buttati, Bernardo!

"Buttati, Bernardo!", traduzione italiana del film "You are a big boy now", è intimamente collegato per tema (ma non per rappresentazione) ad "Il laureato". E' proprio un bel film e ne consiglio caldamente la visione. Seconda opera di Francis Ford Coppola, si caratterizza per una serie di gag e trovate divertenti che rendono leggero il tema della iniziazione all'amore e all'indipendenza di un ragazzo sopra le righe.
Il cane, dick o rover a seconda del punto di vista, è una meraviglia.

domenica 14 marzo 2010

Un commento con qualche decade di ritardo de "Il laureato"

E' un film che presenta molteplici spunti di riflessione.
Il protagonista è un rampollo di "buona famiglia", ossia di una famiglia americana alto borghese decisamente agiata. Si è appena laureato. La sua è un'esistenza desolante. Il ragazzo, nonostante l'apporto culturale della laurea, è completamente sprovvisto di mezzi per vivere in un modo spiritualmente soddisfacente. Infatti, da quelle poche battute che gli lasciano pronunciare, emerge la sensazione di vuoto e di deriva più totale. Intenzionalmente o meno, il film diviene una critica devastante della "buona" e opulenta società agiata americana: allo sviluppo ipertrofico della ricchezza materiale si accompagna una povertà spirituale senza mezzi termini. Uno straccione del medioevo fa più onore all'umanità di uno qualsiasi dei personaggi secondari.
La macchina da presa non si fa alcuno scrupolo. In quella società, almeno dal punto di vista proposto dalla regia (che assorbe nel suo obiettivo l'occhio e la mente del protagonista) non esistono persone. I genitori del laureato a malapena vengono inquadrati in volto, così i loro amici e tutti i personaggi secondari. Sfido chiunque a ricordarsi, anche vagamente, il volto di più di 4 personaggi, compreso il protagonista, dei 100 minuti della pellicola. Una regia,quindi, che sembra grezza, poco discreta in un certo senso, ma parecchio efficace. Il protagonista è un'isola circondata da un mare di incomunicabilità e incomprensione.
Il ragazzo, "pardon, giovanotto", è limitato allora da ogni punto di vista. Frustrato dalla noia e dal disagio per delle regole e delle etichette che nessuna giustificazione umanista permette di tollerare, potrebbe anche trovar soddisfazione nel suicidio. In effetti mi sarei aspettato una fine del genere. Almeno, che si accennasse a questa possibilità. Ma non ve n'è traccia nel film (almeno esplicita).
Invece, la soluzione viene trovata, improbabile, in un rapporto di autenticità che riesce a sbocciare con una ragazza. Al solito, sarebbe un rapporto "impossibile", ma la tenacia, se non la morbosità del protagonista riuscirà a renderlo fattuale. Dico morbosità perchè palesemente per il protagonista quel rapporto rappresenta l'ultima spiaggia, l'unico contatto che può rendere tollerabile una vita priva di senso (a riprova del fatto che non di solo pane vive l'uomo). E' una posizione discutibile. Fellini avrebbe fatto dire al suo protagonista che che una donna non può cambiare/salvare un uomo. Del resto Fellini era a suo modo innamorato della vita. Il suo uomo non doveva cambiare, in ultima battuta.
La musica (Simon&Garfunkel) è puntuale. Si sposa alla perfezione con la regia e non ha bisogno di commento.
La scena finale di lui che sbatte contro il vetro strillando istericamente come un animale è bellissima. La scena conclusiva di lui-lei in autobus un po' una pacchianata, con il beneficio del dubbio. Sinceramente, avrei concluso il tutto con lui che si suicida buttandosi contro il vetro e precipitando sanguinante. Ma forse perché anche io non credo che una ragazza possa salvare un uomo.